E se dovesse ritornare l’incubo inflazione?
E se dovesse ritornare l’incubo inflazione?
di Emanuele Davide Ruffino e Edmondo Rustico
Fonte: https://www.laportadivetro.org/
Che ci sia la possibilità di una ripresa dell’inflazione lo testimoniano le ultime
relazioni delle BCE e della Fed: fino a che punto questo costituisca un pericolo
non è stato esplicitato da questi massimi organismi della finanza. In passato i
costi sostenuti durante un conflitto venivano normalmente pagati con ondate
inflattive (secondo Benjamin Disraeli, primo ministro inglese tra il 1868 e il
1880, la più iniqua delle tasse) mentre oggi, per contrastare la pandemia, si è
pensato di esasperare il debito pubblico, praticamente senza limiti: la storia dirà
quale forma è la più iniqua, ma entrambe le soluzioni non sono esenti da
pericolosi rischi.
Chi nasce in Italia è già indebitato per 40.000 Euro: sempre meglio che nascere
in un Paese del terzo mondo, dove il problema non è l’indebitamento ma la
sopravvivenza. A fronte di tale fardello il neonato italiano dispone di un capitale
culturale e di infrastrutture tra i più avanzati al mondo. Il problema è che il debito
pro-capite è destinato a crescere (non solo per la crescita del debito, ma anche per
la denatalità), mentre cultura e infrastrutture sembrano rimanere al palo.
I costi nascosti sono i più esosi
Il debito, costantemente alimentato dallo sbilancio tra le spese dello Stato rispetto
alle entrate, finisce per sottrarre risorse alle famiglie e alle imprese. L’andamento
del debito pubblico e il benessere degli individui, infatti, non sempre presentano
gli effetti prospettati dalle politiche keynesiane, ma, oltre certe soglie, rilevano
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un andamento inverso, con un incremento delle disuguaglianze. Gli effetti della
pioggia di offerta di denaro (quasi un helicopter money), distribuita in tempi
rapidi, per contenere gli effetti del coronavirus, sono tali da non permettere una
selezione dei beneficiari, avvantaggiando forme malavitose o accrescendo la
capacità di accumulo di una parte minoritaria della popolazione. La pandemia ha
avvantaggiato, sia pur con un’infinità di eccezioni, i percettori di reddito stabili
(pensionati, dipendenti pubblici e privati di aziende consolidate, a scapito delle
partite I.V.A.) e i detentori di capitali impiegati in attività remunerative (che
hanno approfittato dello schiacciamento dell’inflazione, a scapito del capitale a
rischio d’impresa).
La risposta a questo sbilanciamento non può più essere ricercata con
l’inasprimenti fiscali, demagogicamente apprezzabili, ma di scarsa efficacia (gli
inasprimenti fiscali, da soli, provocano solamente un abbattimento delle
potenzialità di crescita ed incentivano la delocalizzazione o lo spostamento dei
capitali all’estero), ma nella capacità di creare condizioni affinché le energie
vitali trovino nella società le possibilità di crescere e svilupparsi. Il mondo
occidentale è alla ricerca di un nuovo modo d’interpretare la realtà, ma ciò
richiede una presentazione veritiera e tempestiva dei dati e delle informazioni tali
da garantire trasparenza ed eticità nei comportamenti. I risultati riportati
attualmente sui bilanci assumono quasi un elemento accessorio: la riprova è data
dal fatto che la pubblicazione del bilancio o l’annuncio di una ripresa
dell’inflazione non condiziona più neanche l’andamento dei titoli in Borsa o
l’andamento delle valute (in quanto tale informazione è già stata
abbondantemente scontata dal mercato, precedentemente alla loro pubblicazione
o perché vi sono altri fattori che determinano l’economia reale).
Nuovi scenari tra speranze e illusioni
Con l’inflazione a zero (o in presenza di deflazione), anche i tassi negativi,
rappresentano un’alternativa “esplicita” di quella che per anni è stata la
situazione dove “l’inflazione risultava superiore ai tassi di rendimento”, ma
proprio perché esplicita, può provocare reazioni di sfiducia tra i risparmiatori,
inducendoli a forme di trasferimento/espatrio dei capitali o investimenti in
materiali preziosi (oro, diamanti etc, per tutelarsi dalla perdita di valore dei tassi
negativi o dall’inflazione). L’ipotesi che i detentori di capitali (specie se di
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modeste dimensioni) si sentano spronati ad avviare nuove iniziative, si scontra
però con le condizioni operative (la presenza di tassi negativi induce a ritenere
che non esistano condizioni per l’avvio o il potenziamento di imprese bisognose
di prestiti).
Ogni crisi finanziaria o sanitaria (e le due fattispecie, in caso di epidemie e di
epizoozie sono diventate inevitabilmente interconnesse) sancisce l’impossibilità
d’illudersi di poter riversare sugli altri i propri deficit, così come in passato è
avvenuto con l’inflazione e la svalutazione. La speranza è un valore, l’illusione è
la sua negazione: ne consegue che ogni comunità deve individuare quali possono
essere le proprie possibilità, quali sono i bisogni prioritari che s’intende
perseguire, gerarchizzando le possibilità d’intervento. In un’economia cognitiva
si concretizza la necessità di prendere coscienza degli effetti che si
manifesteranno in futuro a seguito delle decisioni intraprese.
Sul fronte finanziario si rileva come la conoscenza dei debiti che l’attuale e le
prossime generazioni dovranno sopportare non è più una variabile riservata ai
cultori della contabilità pubblica e della scienza delle finanze, ma un problema
generale che già condiziona la vita in molti paesi e che, l’inevitabile l’aumento
delle spese per sostenere l’economia durante il coronavirus, lasceranno la società
con sempre minori possibilità di manovra. Il risparmiatore, per sfuggire al debito,
tenderà a sposare la sua liquidità verso Paesi o imprese considerate solvibili o
presunte tali, accentuando il trasferimento di capitali da Paesi a rischio di
inflazione e/o svalutazione, verso paesi con debito sovrano garantito, rinunciando
a rendimenti superiori per accrescere la possibilità di vedere restituito integro
l’investimento: anzi il differenziale dei rendimenti (il famigerato spread), a parità
di valuta, è l’iconoclasta espressone del cosiddetto “rischio Paese” o “rischio
azienda”. Il trasferire risparmi/capitale/risorse in un altro paese (o semplicemente
acquistandone titoli o azioni dal proprio conto-corrente bancario) significa
depotenziare la realtà in cui si vive, non solo sottraendone risorse, ma anche per
la crescente sfiducia nel sistema (parametro sempre più predittivo
dell’andamento del benessere).
Gli effetti della delocalizzazione
Se i disastri finanziari nascosti sotto il tappeto dei singoli Stati e di tanti enti
pubblici già rischiano di rallentare non solo le possibilità di sviluppo dei
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medesimi, ma dell’intero sistema, effetti ancor più deleteri si registrano in
conseguenza dei comportamenti assunti dalle imprese private la cui
delocalizzazione finisce per penalizzare più soggetti. In un’ottica di welfare
sociale, una delocalizzazione può essere associata ad un fallimento, non solo
perché si sottraggono potenzialità ad un territorio, ma perché rileva l’incapacità
di quel contesto a creare e mantenere un clima di fiducia, quale presupposto per
la realizzazione di una società a misura d’uomo: più che impedire la
delocalizzazione con norme di fatto inapplicabili, l’attenzione si deve concentrare
sul modellare in loco condizioni per incentivare le imprese a ritenere opportuno
scegliere di rimanere in quel contesto, attraendo semmai altri componenti della
filiera produttiva.
Il non funzionamento dei meccanismi economico-sociali ricade inevitabilmente
su tutta la collettività: il fallimento di alcune banche o imprese può
compromettere irrimediabilmente le possibilità di sviluppo di intere aree.
Riassume così importanza il ruolo delle funzioni politico-amministrative che
devono essere giudicate, nell’immediato, dai suoi componenti costituenti (i
cittadini elettori e gli organi di controllo) e, nel lungo periodo, dalla storia che
sancisce il successo/sopravvivenza delle soluzioni adottate. Il concentrare
l’attenzione solo sulla prossima tornata elettorale riduce le possibilità di una
visione prospettica, eludendo l’analisi sui parametri economici che potrebbero
influire realmente sulle condizioni di vita e di sviluppo. Occorrerà sempre più
definire schemi e termini di raffronto in grado di prevedere la validità delle scelte
effettuate, mirando, in particolare, a verificare la sostenibilità delle richieste in
rapporto alle disponibilità del sistema, senza gravare di debiti le generazioni
future (il vero pericolo delle politiche del welfare).